Formaggi di un passato povero

Ricordo ancora quando nelle case dei contadini le bottiglie di vino non sono agitate perché hanno un fondo di diversi millimetri, spesso il vino ha un sentore di tappo o di acidità, i salami sono un poco rancidi con qualche buco dove vi è anche della muffa, i formaggi non mancano di avere una crosta polverosa prodotta da acari e all’interno vi sono crepe e punti ammuffiti. La risposta è sempre la stessa: “sono alimenti tipici e genuini che facciamo secondo la tradizione che abbiamo ereditato dai nostri padri e nonni“, e soprattutto “non usiamo tutte le sporcherie (sic) della chimica“. In queste risposte si confondono in modo assolutamente inaccettabile tipicità, tradizione e qualità, quando non si arriva a trasformare un indubbio e anche grave difetto in un pregio. Un fenomeno non più soltanto di un lontano e dimenticato passato, ma che sembra risorgere, come anche di recente segnala il Prof. Giuseppe Zeppa (Zeppa G. – Quando il difetto è tipico si fa pregio? – L’Assaggio – Inverno 2021 pag. 11). Bisogna infatti constatare che negli ultimi anni, in nome di una tipicità e di una tradizione più immaginata e sognata che reale, si sta assistendo ad una inversione di tendenza proponendo a una popolazione, in gran parte ignara di come erano veramente gli alimenti del passato, cibi che erano conseguenze di povertà, ma soprattutto di scarsa igiene e di ignoranza.

Tradizione non è sempre sinonimo di sicurezza

Tradizione, e cioè modi di produrre e consumare alimenti elaborati nel passato, non è automaticamente sinonimo di sicurezza, soprattutto a medio e lungo termine e con i criteri elaborati da una lunga e approfondita ricerca scientifica. Significativi sono gli esempi che tra i tanti riguardano le infezioni trasmissibili, quali le brucellosi e la listeriosi, e l’uso dei nitrati. Le brucellosi erano già presenti nelle popolazioni dei paesi mediterranei fin dal tempo dei faraoni, ma nulla si sapeva della loro trasmissione tramite il latte e i formaggi prima che le autorità britanniche con la “Commissione per la Febbre Mediterranea” (1904 – 1907) concludessero che a Malta le capre erano il serbatoio dell’infezione e il loro latte non pastorizzato era il veicolo di trasmissione della malattia dall’animale all’uomo. Molto più recente è la scoperta che l’infezione da listeria, anche detta listeriosi, è una tossinfezione alimentare che prende il nome dal batterio che ne è la causa, il Listeria monocytogenes che si trova comunemente nel terreno e nell’acqua, che può facilmente contaminare ortaggi e verdure, che molti animali possono venire infettati dal batterio senza dimostrare sintomi apparenti e che i prodotti lattiero-caseari preparati con latte non pastorizzato possano trasmettere l’infezione. Per quanto riguarda i nitriti e nitrati non si dimentichi che il loro uso negli alimenti è tradizionalmente antichissimo, in quanto conosciuto fin dai tempi più remoti, quando il salnitro prodotto in modo empirico nelle salnitrare era usato in modo approssimativo e in dosi quanto mai incerte, quindi anche rischiose, diversamente da oggi quando possiamo usare molecole ben definite e in quantità precise al milligrammo.

Tradizione non è sempre sinonimo di qualità

Le tradizioni alimentari del passato si sono costituite in relazione a condizioni di vita diverse dalle attuali, quando la gran parte della gente svolgeva lavori manuali che richiedevano fatica e sudore, e quindi era necessario avere cibi ricchi di energia e di sale. Alimenti altamente energetici grassi e salati erano un pregio e quindi di qualità, diversamente da oggi dal momento che una vita sedentaria esige alimenti con limitate quantità di energia, quindi magri, e poveri di sale, che da necessità è divenuto un rischio soprattutto per le persone della terza e quarta età. In modo analogo sono cambiati i criteri di sicurezza che non riguardano più il breve periodo (secondo l’antico proverbio “quel che non ammazza ingrassa“) ma il lungo periodo odiernamente studiato dalla epidemiologia statistica. Da qui la necessità di un’evoluzione degli alimenti con nuove qualità che, partendo dalle antiche tradizioni non più valide, devono essere adeguate alle odierne esigenze di una popolazione con una vita diversa per lunghezza e stile a quella del passato. Anche per questo alimenti ammuffiti, con acari o vermi o con difetti venduti come pregi nel nome della tipicità, sono da bandire e non da presentare come alimenti curiosi, retaggio di antiche tradizioni e culture ormai superate e in via di scomparsa, indice di povertà o comunque di una scarsità alimentare nella quale nessun possibile alimento poteva essere trascurato. Completamente errato è considerare tipico e di qualità un prodotto semplicemente difettoso, perché un prodotto agroalimentare per essere di qualità e tipico deve essere privo di difetti; la tipicità deve essere l’ultimo anello di una catena di caratteri e se vi sono dei difetti il prodotto non può essere edibile e quindi nemmeno di qualità, né tantomeno tipico.

Formaggi falsi antichi

Il quadro sopra delineato non è così tragico perché gran parte dei formaggi, come di altri alimenti presentati come espressione di un’antica tradizione, non sono tali ma sono solo “falsi antichi” che di falso hanno spesso più il nome che la sostanza, in una situazione che vede coinvolti i consumatori e i produttori. I consumatori sono sempre più incuriositi dalle novità e al tempo stesso sono anche diffidenti delle produzioni industriali, per cui sono attratti da alimenti che evocano l’antico e scelgono senza valutare e spesso senza conoscere, cercando un collegamento con l’artigianalità e gli aspetti più bucolici di una produzione agroalimentare idealizzata. I produttori che si trasformano in comunicatori assecondando le richieste dei consumatori anche inconsce con messaggi spesso ambigui. In questo modo non vi sono rischi o pericoli per la salute del consumatore, che però diviene connivente inconscio di un inganno che riguarda una non ben definita “tipicità” e solo immaginate o sognate “tradizioni” popolari o culturali.

 

Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie. 

Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri. 

Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.