E’ singolare che i giornalisti abbiano scatenato un’aspra polemica su un contenuto del mediometraggio “Gli amigos” realizzato da Paolo Genovese per il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano, uscito il 18 Settembre 2021 e riadattato come spot in questi giorni. Dopo poco meno di quattro mesi alcuni giornalisti, poi diventati tantissimi, hanno trovato disdicevole, se non osceno, che il casaro Renato non facesse mai ferie ma lavorasse sempre e non anelasse spasmodicamente ad avere tanto tempo libero per godersi mare, montagna e bagordi. Certo, a chi gode di posti fissi, come i vitalizi, e nei quali la meritocrazia e il senso della responsabilità sono considerati “difetti” gravi, quella scena del film deve aver generato sconcerto e fatto urlare di sdegno. Personalmente, da appartenente al mondo delle imprese, la cosa non mi ha minimamente sconvolto, perché per noi della partita IVA tra lavoro e hobby non c’è un confine netto e spesso sono sinonimi. Il fatto che il Consorzio del Parmigiano abbia voluto con questo film dare una discontinuità con il tipo di comunicazione fatta fino a quel momento da tutti sui temi dell’allevamento e della produzione dei prodotti del latte, l’ho ritenuto di enorme importanza e testimoniato in un articolo pubblicato il 25 Ottobre 2021 su Ruminantia.
Il mondo delle produzione animali ha dato di sè, e con la complicità delle agenzie di comunicazione, sempre un’immagine falsata, fatta di stereotipi che negli anni hanno offuscato la realtà degli allevamenti e che ora stanno creando un enorme danno ai prodotti del latte e della carne. Il Consorzio del Parmigiano ha voluto, riuscendoci, far vedere cosa c’è realmente dietro al formaggio italiano più famoso nel mondo. Ha avuto il coraggio di non nascondersi dietro l’equivoco del pascolo e del contadino, considerati dai pubblicitari le immagini più rassicuranti che ci sono quando si parla di allevare le vacche, anzi le “mucche”. Personalmente, e a nome della maggior parte degli allevatori, ho ringraziato il Consorzio per l’iniezione culturale che ha fatto alla filiera del latte e per averci messo la faccia, ben sapendo che si deve partire da qui per riqualificare l’immagine del Parmigiano e di tutti prodotti del latte.
Questa grande indignazione per la scena del mediometraggio dove si parla del casaro Renato segue di pochi giorni un’altra “vibrata protesta” da parte della medicina veterinaria all’affermazione che le vacche del Parmigiano Reggiano non hanno bisogno del veterinario perché stanno sempre bene. Un frase ovviamente scherzosa di questo tipo avrebbe dovuto stimolare sorrisi invece che indignazione. Non mi risulta che il detto popolare “una mela al giorno toglie il medico di torno” abbia stimolato mai censure da parte dei medici o abbia permesso ai farmacisti di mettere un cesto di mele sul banco delle farmacie.
I pensieri che questi fenomeni stimolano sono però tanti. Il primo è che si deve continuare a narrare l’allevamento e il formaggio in netta discontinuità con il passato, avendo il coraggio di smettere di alimentare equivoci con i consumatori. Ovvio è che Renato va in ferie, si riposa, va al cinema e agli aperitivi. Chi della vicenda vede solo il bicchiere mezzo pieno ha colto perfettamente la metafora tipica dell’arte. Il mediometraggio di Genovese è un’espressione dell’arte cinematografica e quindi non è un documentario. La passione che c’è dietro questo formaggio, e del resto anche in tutto il mondo rurale, è un valore sacro che deve essere difeso da tutti. Il Parmigiano Reggiano ha fatto un tentativo coraggioso di miglioramento netto della percezione che l’opinione pubblica ha dell’allevamento delle bovine da latte e, anche se c’è qualche imprecisione, questo va difeso da tutti noi che in questo mondo ci viviamo e ne traiamo sostentamento. Il silenzio assordante che circonda ormai da anni il mondo del latte, il non reagire mai agli attacchi alla sua reputazione e il subire sperando che “tanto passerà” stanno creando un danno incalcolabile che ancora per poco tempo sarà reversibile. Non ho sentito attestati di solidarietà nei confronti del Consorzio e questo è molto grave. Serva comunque da lezione e di stimolo a rivedere nel profondo l’immagine che gli allevatori danno di sè, immagine che in genere la gente non capisce, e che anzi travisa.
Basterebbe raccontare la verità e solo la verità, cosa che fino ad oggi non è stata mai fatta per ragioni antropologiche molto complesse. Una verità che forse aiuterebbe gli allevatori nel ricambio generazionale e nel trovare collaboratori da assumere.
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