Dopo aver scoperto cosa sono le frattaglie e la loro storia nella cucina italiana con l’articolo “Frattaglie bovine dimenticate“, abbiamo approfondito il loro ruolo nella nutrizione umana con “Frattaglie bovine e nutrizione umana“. Concludiamo ora il capitolo sulle frattaglie con questo articolo sull’aspetto gastronomico, andando a scoprire i segreti per rendere questi alimenti un piatto gustoso in cucina.
In talune frattaglie vi sono principi attivi che hanno portato all’identificazione di molecole strategiche con importanti azioni (functional foods) e questo permette anche di meglio comprendere la cucina tradizionale e la gastronomia. Infatti, se in modo intelligente cerchiamo di analizzare il passato alimentare e gastronomico, considerando l’utilizzazione delle frattaglie nelle cucine regionali italiane, ci possiamo accorgere come siano stati sempre privilegiati alimenti dotati di elevate caratteristiche che oggi possiamo definire nutraceutiche: dalle vitamine ai microminerali organici, a tutta una diversificata serie di molecole strategiche dotate anche di particolari sapori e aromi e, quindi, privilegiate attraverso il gusto, il primo senso sviluppato dalla vita per regolare l’alimentazione ed i processi nutrizionali. Tipico esempio è l’intelligente uso nella cucina romana delle frattaglie associate ad erbe aromatiche, in molte delle quali è oggi documentata l’elevata attività antiossidante. In modo analogo, e come portatori di molecole strategiche, vanno ricordati ortaggi aromatici e spezie, ad iniziare dall’aglio e dalla cipolla. Da non dimenticare anche il resveratrolo contenuto nel vino rosso, costantemente presente nelle cucine regionali. In quest’orientamento, la critica del gusto, che caratterizza la gastronomia, assume un particolare ruolo sanitario e salutistico perché la fame, l’appetito e la gastronomia sono tre tappe che distinguono l’uomo dall’animale.
Antiche e nuove frattaglie
Secondo un’indagine Inran-Scai dei consumi alimentari in Italia, su un consumo medio giornaliero di 110 g di carne, insaccati e sostituti della carne, solo il 3% degli italiani consuma frattaglie e, quando lo fa, soltanto in piccole porzioni (circa 30 g). Sempre meno gradite dalla gran parte della popolazione, forse perché ricordano periodi poveri, alcune sono ancora apprezzate dai gastronomi e molte sono in via di rivalutazione anche da parte dei cuochi più alla moda. Questi alimenti hanno un gusto un pò forte e deciso, con un buon valore nutritivo e quasi sempre un elevato valore commerciale.
Le frattaglie comprendono tre categorie di alimenti. Le prime due, simili per grossolana composizione chimica e consistenza, sono costituite dai visceri: “frattaglie scure”, che comprendono cuore, fegato, milza, polmone e rognone; e “frattaglie chiare”, fra cui si annoverano il cervello, il midollo spinale o filone e le animelle. A questo elenco si avvicinano, per affinità, lingua, trippa, testina, piedini, coda di manzo o di vitello. Nel pollame le frattaglie sono denominate regaglie e comprendono solo alcuni organi (cuore, fegato e ventrigli).
Fegato
Tra i simboli gastronomici che evocano la cucina elegante rientra il paté de foie gras che, per il suo gusto raffinato, ha elevato a livello di grande prestigio l’alimento che ben si presta ad introdurre questo capitolo: il fegato. Una posizione di prestigio molto antica ed italiana, che risale almeno alla grande cucina romana, quando si apprezzava il fegato (iecur, calco del greco ἧπαρ) di animali ingrassati con cibi ricchi di zuccheri, come i fichi. Da qui la denominazione di iecur ficatum (ἧπαρ συκωτόν) che ha dato origine alla denominazione dell’organo nelle lingue neolatine dell’italiano, francese, spagnolo ecc. (fegato, foie, higado ecc.).
Il fegato era ritenuto il viscere centrale della vita. Per questo, tra le varie forme di arte divinatoria, il suo esame (epatoscopia) mette in evidenza una simbolica continuità tra la rappresentazione dell’inquietudine del passato e quella del presente. Il fegato, l’unico organo capace di una rigenerazione quasi totale, come richiamato anche dal mito di Prometeo, al quale ogni notte veniva ricostruito il fegato che di giorno era mangiato dall’aquila, ha sempre rappresentato un simbolo di coraggio e di forza fisica. Di una persona coraggiosa si dice infatti che “ha fegato”. Per gli antichi il fegato era la sede della forza, della caparbietà e delle passioni, dell’amore sensuale e dell’ira. Se è inoltre vero, come è stato sostenuto, che il coraggio è una protesi psichica, allora si potrà intendere che ciascuno può generare o rigenerare il suo coraggio. Da qui la tecnica di esaminare il fegato delle vittime sacrificali, per trarne auspici sul futuro. Una tecnica divinatoria che era nota ai Sumeri e soprattutto agli Etruschi. Le viscere degli animali di cui si servivano gli aruspici erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente fegato. Esse erano strappate dal corpo degli animali appena uccisi e riservati alla consultazione divinatoria, quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di buoi, talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore. L’osservazione del fegato era minuziosa, perché in esso, per l’aspetto generale e per la particolare conformazione, era riconosciuto il “tempio terrestre” corrispondente al “tempio celeste”. La sua importanza era del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la sede, oltre che del coraggio e dell’ira, anche degli affetti e dell’intelligenza. L’interpretazione dei segni presenti nelle viscere degli animali presupponeva la corrispondenza fra tre piani di riferimento: divino, cosmico e umano. Le particolarità delle varie regioni dell’organo indicavano la decisione degli dei e, di conseguenza, predicevano lo svolgimento imminente degli avvenimenti.
Il fegato è ricco in principi nutritivi. Un etto di fegato bovino contiene, oltre alle proteine (21 g), elevate quantità di vitamine, specialmente A (10-30 mg), B1 (0,3-0,4 mg), B2 (3,3 mg), C (30 mg) e D, il cui contenuto varia da stagione a stagione, anche a seconda che l’animale abbia pascolato o no. Cospicuo è il contenuto in sali minerali, soprattutto ferro (8,8 mg ogni etto), che lo rende adatto all’alimentazione degli adolescenti e delle donne in gravidanza. La quantità di lipidi presenti è limitata (4%). Il fegato di cavallo e di maiale è più ricco in proteine rispetto a quello bovino (22,4%). Il contenuto in ferro è molto elevato nel fegato di maiale (18 mg per 100 g).
Il fegato è tanto più tenero quanto più giovane è l’animale: quello di vitello è pertanto più pregiato di quello di manzo. Anche il fegato di agnello, o di pollo, è ottimo dal punto di vista nutrizionale e organolettico. Il più apprezzato dal punto di vista dietetico è quello di maiale, seguito da quelli di agnello, manzo, vitello e pollo. Come tutte le frattaglie, il fegato è soggetto a rapido deterioramento e deve essere consumato freschissimo. Al momento dell’acquisto deve apparire duro e compatto, di colore bruno non troppo intenso, e la membrana che lo riveste deve essere liscia e brillante. Se presenta sfumature violacee e consistenza flaccida, c’è da dubitare della sua freschezza. Richiede inoltre un’accurata pulizia preliminare in acqua fredda.
Paté, terrine e pasticci devono in gran parte al fegato i loro particolari e, a volte, straordinari sapori. Il metodo di cottura più indicato, dopo aver tolto pellicine ed eventuali parti nervose, è alla griglia e per un tempo non prolungato, per evitare che la carne diventi dura e coriacea. Il fegato di maiale richiede tempi di cottura più lunghi e spesso si prepara tagliato a piccoli pezzi avvolti nella reticella bianca. Si sala sempre a fine cottura, evitando così che s’indurisca. La ricetta più diffusa è alla veneziana, cotto in padella con burro, farina e cipolla. Il fegato all’alpina è una ricetta frequente di alcune zone del Nord Italia. La frattaglia, tagliata sottile e saltata in padella con olio, burro e salvia, va abbinata a un sughetto ricavato da aglio, funghi porcini, basilico e prezzemolo; si tratta di una prelibatezza da abbinare alla polenta. Il fegato ha un aroma che tende all’amaro, per i piccoli residui di bile che può contenere, e che condiziona anche gli abbinamenti con le bevande. Dato il notevole contenuto in purine (sostanze estrattive precursori dell’acido urico) è controindicato per i gottosi, gli anziani e gli uricemici.
Bile o fiele
Associata al fegato di gran parte degli animali (manca nel cavallo, nel colombo e altri), vi è la vescichetta biliare che contiene la bile o fiele. Questo liquido amarissimo, nel passato, aveva usi medicinali (vedi la storia biblica di Tobia), ma era largamente usato come amarizzante alimentare e rientrava, tra l’altro, nella ricetta della posca, bevanda acido-amara dei soldati romani.
Animelle
Le animelle, in senso stretto, sono costituite dal timo dei giovani animali (soprattutto del vitello), che è una ghiandola endocrina posizionata sotto il collo dell’animale (colesterolo 250 mg/100g di parte edibile). Questo è un organo interno o intimus, quindi l’anima (da cui la sua denominazione) potrebbe essere riferita, oltre che alla posizione interna, al colore bianco delle ghiandole. Non di rado, ma impropriamente, tra le animelle sono comprese altre ghiandole (salivari e pancreas) di minor valore gastronomico. Sono un alimento di facile digestione, ricco di vitamine e sali minerali (fosforo in particolare). Vanno consumate freschissime e possono essere somministrate anche ai bambini a partire dal secondo anno d’età. Le animelle di vitello, delicate e pregiate, hanno un elevato valore nutritivo. La classica preparazione, che ne esalta al meglio il sapore, è quella in tegamino al burro. Squisite anche impanate e fritte, sono molto indicate anche per legare o ammorbidire i ripieni, cui conferiscono una nota raffinata. Immerse in abbondante acqua fredda, da rinnovare almeno tre o quattro volte, vanno scottate per circa 5-6 minuti in acqua salata a leggero bollore, sgocciolate delicatamente e lasciate raffreddare, liberandole con cura da ogni pellicina per evitare di sciuparle. Il notevole contenuto in purine ne sconsiglia il consumo ad anziani, gottosi e uricemici.
Rognoni
I rognoni sono i reni degli animali, dalla caratteristica forma a fagiolo con aderenze di grasso. Si utilizza principalmente il rognone di vitello per la maggior tenerezza e sapidità; di buon valore nutrizionale, contiene una discreta quantità di proteine (18%), vitamine e sali minerali, in adeguate proporzioni, ed una limitata quantità di lipidi (4,6%).
Come il fegato ed il cuore, il rognone deve essere consumato freschissimo: occorre pertanto accertarsi, al momento dell’acquisto, che il grasso sia di colore bianco e di consistenza soda. La conservazione in frigorifero non deve superare le ventiquattro ore. Prima di cucinarlo, si consiglia di lavarlo ripetutamente con acqua corrente per eliminare il caratteristico odore piuttosto sgradevole che potrebbe trasmettersi alla pietanza. I rognoni sono apprezzati come componente della cucina raffinata, con valore nutritivo elevato e una certa quantità di grassi. Si consiglia di acquistare soltanto rognoni di vitello o almeno di vitellone, perché hanno un sapore molto più delicato e gradevole rispetto a quelli di manzo, dal sapore e dalla consistenza decisamente più forti. Il rognone rappresenta l’ingrediente base di molte ricette tradizionali e innovative. Quello di vitello ha consistenza tenera e leggermente grassa; prima di essere cotto va spurgato in acqua e aceto. Particolarmente apprezzato è il grasso perirenale.
Se non si acquista il rognone già pulito dal macellaio, tagliarlo in senso verticale, lavarlo con molta cura in acqua corrente, poi con un coltellino affilato spellarlo e privarlo della parte interna che è bianca, grassa e spugnosa. Per eliminare il sapore forte che spesso possono avere i rognoni dei bovini adulti, tagliarli a fettine e lasciarli immersi nell’acqua fredda acidulata con succo di limone o aceto. Per evitare che induriscano durante la cottura, che deve essere di pochi minuti, tagliare i rognoni a pezzetti oppure a fettine non troppo sottili. Molti cuochi suggeriscono di eseguire, prima di realizzare la ricetta, una precottura che consiste nel far saltare velocemente le fettine di rognone in un tegame appena spennellato d’olio, in modo che perdano il siero e il sangue residui e, poi, di lasciarle sgocciolare in un passino per circa mezz’ora. Il rognone può essere cotto alla griglia, al burro e fiammeggiato al brandy, trifolato in tegame. È controindicato per chi soffre di uricemia.
Cervello e midollo spinale (filone)
Il cervello è meno ricco di proteine (10%) rispetto ad altre frattaglie ma contiene più grassi (13%), ed una notevole quantità di vitamine e sali minerali (calcio e fosforo in particolare). La consistenza morbida lo rende adatto anche ai bambini e agli anziani ma, essendo l’organo più ricco di colesterolo, è controindicato per quanti soffrono di arteriosclerosi. Insieme al midollo spinale o filone, il cervello è alla base di ottime preparazioni culinarie. Quello più consumato è di vitello o d’agnello, sotto forma di “testina al forno”, oppure quello del bovino cucinato panato e fritto.
Cibo delicato e ad alto valore nutritivo, il cervello deve essere consumato soltanto freschissimo. È generalmente utilizzato in preparazioni semplici e veloci, per esempio al burro, oppure per ammorbidire e legare ripieni di carne e di verdura. Il suo sapore si abbina molto bene con il profumo dei tartufi. Quasi tutte le ricette di cervella sono intercambiabili con quelle delle animelle.
Ogni cervello ha un peso che varia da 300 a 400 g. Prima di essere cucinato deve essere liberato dal sangue, va perciò lavato con succo di limone e tenuto in acqua fredda per mezz’ora; tale operazione deve essere ripetuta dopo aver eliminato la pellicola che lo riveste. Può essere cucinato anche bollito. In generale, se ne assegnano circa 150 g a persona. Si immerge il cervello in acqua tiepida per mezz’ora. Si rimuovono con un coltellino acuminato e con molta delicatezza le pellicine e le eventuali tracce di sangue; si mette a bagno nell’acqua fredda rinnovandola finché il cervello non sia diventato bianco. Per le preparazioni che richiedono una cottura preliminare, si porta a bollore abbondante acqua aromatizzata con un cucchiaio d’aceto ed il succo di mezzo limone, vi si immerge il cervello lasciandolo sobbollire per alcuni minuti se di manzo, poco meno se di vitello, e si raffredda sotto l’acqua corrente. Per lessare il cervello, si prepara un brodo vegetale ristretto, si filtra e si lascia intiepidire, poi vi si immerge il cervello, si porta a ebollizione e si cuoce a fuoco molto basso per circa 10 minuti.
Cuore e coratella
Il valore nutritivo del cuore, privo di grasso, è paragonabile a quello della polpa di manzo. Il cuore è un cibo nutriente ed economico, contiene circa il 17% di proteine ed il 13% di grassi ed è ricco di vitamina B1. Per valutare lo stato di freschezza, basta assicurarsi che la carne abbia consistenza soda e compatta e colore rosa. Il cuore degli animali da macello e soprattutto di vitelli e maiali, è costituito da una corposa massa muscolare povera di grasso. Dal gusto dolciastro, si presta a diverse preparazioni di cucina.
Di vitello o di manzo, il cuore può essere considerato un ottimo ed economico sostituto della carne, dal momento che il suo valore nutritivo equivale a quello del vitello magro. A causa della maggiore durezza delle sue fibre muscolari, è però meno digeribile. Un cuore di vitello varia da ottocento grammi a un chilogrammo mentre un cuore di manzo può arrivare anche a due chilogrammi. Durante la scelta, si deve controllare che la carne sia elastica e il colore brillante. Il cuore si prepara tagliandolo a fettine e poi privandolo degli eventuali grumi e dei nodi più grandi che presentano arterie e vene. Può essere cucinato, come il fegato, alla griglia, arrosto o in umido; richiede però una cottura più prolungata per la minor tenerezza. Per cuocere le fettine alla griglia, quando sono spesse un centimetro, bastano due minuti per parte. In padella, non più di dieci minuti salando a metà cottura.
Cuore, polmone, fegato, intestino e reni dei piccoli animali, e soprattutto dei giovani ovicaprini, costituiscono la coratella. Questo insieme di frattaglie, accuratamente lavate, è cucinato in padella. Si tratta di un piatto tipico del centro Italia, dove nel periodo pasquale aumenta la macellazione degli agnelli. Nella coratella di agnello l’insieme è molto saporito e si presta a svariate preparazioni. Le singole parti sono generalmente cotte secondo questa successione: prima il polmone, poi il cuore e le altre frattaglie e, per ultimo, il fegato che cuoce più rapidamente.
Polmone
Il polmone è di natura essenzialmente proteica (contiene circa il 14% di proteine), con limitata presenza di grassi (2%). E’ un alimento poco digeribile per la ricchezza in connettivo ed elastina. Si consuma prevalentemente il polmone di vitello, che si distingue per il colore rosa chiaro, che diventa rosso più o meno intenso nell’animale adulto. Può essere utilizzato (tritato) per insaporire le minestre e diverse sono le ricette tradizionali nelle quali si usa. Il polmone di vitello, molto fresco, per spurgarlo va forato e passato sotto l’acqua corrente muovendolo e punzecchiandolo per circa un’ora.
Sangue e milza
Un tempo il sangue, soprattutto di maiale, era usato in diverse preparazioni di cucina: fritto con o senza erbe aromatiche. Dal sangue si ottenevano anche insaccati, e tra questi i sanguinacci. Si tratta di salsicciotti piuttosto scuri ottenuti da un impasto di sangue di maiale, pane secco raffermo, rifilatura di pancette, aglio, pepe e aromi; il preparato è insaccato in budello e venduto fresco. Si consuma previa bollitura, magari servito con patate o altre verdure. Ora il sangue è in progressivo se non quasi totale disuso, per motivi psicologici e perché di scarsa digeribilità. In altrettanto progressivo disuso alimentare è la milza, organo che apporta più ferro in assoluto (circa 42 mg per etto). La milza è poco calorica, contiene una ridotta percentuale di lipidi e trova ancora spazio in alcuni cibi di strada nell’Italia meridionale. Ha un buon contenuto proteico (18,5%) ed una limitata quantità di grassi (3,7%). Insieme al fegato è la frattaglia più ricca di ferro, è però scarsamente utilizzata per l’alimentazione umana.
Trippe e trippini
La trippa o le trippe comprendono lo stomaco dei ruminanti e la parte superiore dell’intestino tenue. Di discreto valore nutrizionale, la trippa contiene il 16% di proteine ed il 5% di grassi, ed è molto apprezzata in alcune gastronomie regionali (la famosa “busecca” milanese). Cibo popolare per eccellenza, ma più che gradito anche a palati raffinati, la trippa (o le trippe perché formate da molte parti) è “primo piatto” o anche pietanza, soprattutto invernale. Può essere di manzo, di vitello (più tenera e di cottura un po’ più rapida), oppure di vitellino. La trippa si divide in diverse parti: la pancia; il bonetto, detto anche cuffia, beretta o reticolo; il foiolo (foglietto, libro, centopelle, millepieghe); la croce; la ricciolotta o francese; la franciata, riconoscibile dal colore scuro. A Firenze, il quarto stomaco, ghiandolare, è noto come lampredotto. Lo stomaco di maiale è invece noto come trippino e ha un prevalente impiego nella salumeria.
La digeribilità di questo alimento è scarsa, a causa della cottura molto lenta e prolungata e dell’elevata quantità di tessuto connettivo contenente fibre collagene. Per qualunque preparazione occorre prima lessarlo per renderlo più digeribile. In commercio sono offerte trippe già cotte e già sbiancate, anche se questo risultato è ottenuto con mezzi chimici (dalla soda, all’acqua ossigenata…). In genere, sono sufficienti 150 g di trippa a persona. Dopo averla lavata ripetutamente in acqua fredda, si taglia a striscioline sottili. Per cucinarla il giorno dopo l’acquisto, si deve conservare in frigorifero.
Frattaglie del sesso
Tra le frattaglie sono d’annoverare anche i testicoli di toro e di cavallo, la mammella di vacca, le caruncole o cotiledoni o bottoni della placenta bovina, l’utero delle manze. Le frattaglie del genere femminile vengono consumate soprattutto bollite.
Ossa e midollo osseo
Anche se le ossa fanno parte delle due mezzene e dei quattro quarti, ne sono separate con il disosso e l’isolamento dei diversi tagli di carne. Le ossa sono usate per il brodo, perché forniscono sapore e lo arricchiscono di minerali. In particolare, nelle ossa lunghe è contenuto il midollo e questo ha un certo rilievo in cucina.
Il midollo osseo rientra tra le frattaglie? Certamente, e, sotto un certo aspetto, molto di più di quelle convenzionali. Infatti, per ottenerlo bisogna che l’osso sia rotto, fratturato. Una pratica, quella di rompere le ossa per ricavarne il midollo, che è antichissima e che i nostri antenati praticavano sulle ossa di animali e dei propri consimili, probabilmente per procurarsi un alimento grasso che, salvo qualche eccezione, difettava negli animali selvatici. Fin dal Paleolitico, il midollo osseo ha costituito un’importante fonte di proteine e di calorie per la sua composizione. Si è ritenuto che diversi ominidi e l’Homo sapiens abbiano sfruttato questo alimento, sia da predazione sia da pratiche necrofaghe, per la sua difficile accessibilità da parte della maggior parte dei carnivori. I nostri antenati nel midollo osseo cercavano solo un grasso o un grasso speciale? Per le sue caratteristiche, infatti, esso contiene elevate quantità di lecitina e non è improbabile che vi fosse una fame specifica per questo nutriente, che ha diverse attività metaboliche connesse anche a un corretto funzionamento del sistema nervoso. Nella cucina tradizionale, il midollo osseo (da non confondere con il midollo spinale o filone) è piuttosto apprezzato, tipicamente consumato negli ossibuchi, nel bollito misto di carne, come ingrediente di ripieni insieme al cervello. Nella gastronomia europea del XIX e XX secolo, spesso era usata, nell’apparecchiatura, una specie di sottile spatolina (cucchiaio del midollo), d’argento e con un’estremità lunga e sottile, per la rimozione del midollo servito.
Oggi il midollo è comunemente usato come insaporitore di creme e salse, anche se in alcuni ristoranti europei si trovano ancora piatti con midollo osseo intatto. Per il suo elevato potere emulsionante, trova impiego in piatti tradizionali come il risotto alla milanese o la salsa veronese pearà. È una fonte di proteine ed è molto ricco di grassi monoinsaturi, che abbassano i livelli di colesterolo LDL, con conseguente riduzione del rischio di malattie cardiovascolari, il che induce alcuni a fare del midollo osseo un ingrediente di base della dieta.
Carni del quinto quarto (lingua, masseteri, diaframma, coda)
Nel quinto quarto rientra anche una serie di muscoli della testa o che sono staccati da carcassa e mezzene, come la lingua, i muscoli masseteri, il diaframma e la coda. Queste parti muscolari, per la loro funzione, sono in continuo movimento anche negli animali tenuti fermi nella stalla. Per questo sono carni magre e tenere, particolarmente apprezzate.
La lingua, rispetto ad altre frattaglie, non possiede un valore nutritivo particolare: contiene il 17% di proteine e poco più di grassi, e contiene bassi livelli di vitamine e minerali. Il suo consumo è limitato sostanzialmente al bollito misto di carne. Del vitello s’impiega anche la lingua, particolarmente morbida, e si consiglia salmistrata o affumicata. Prima di cucinarla, è necessario raschiarla e farla spurgare per circa un’ora in acqua corrente. Può essere preparata lessa, brasata o in umido. Se lessata, richiede circa 2-3 ore di cottura ed è abbastanza digeribile. La lingua di manzo, più grande e pesante, oltre a richiedere una cottura prolungata che, ovviamente, riduce in parte le proprietà nutritive, rivela anche un sapore più deciso. La preparazione della lingua affumicata richiede molta abilità, pertanto è consigliabile comprarla già pronta nelle macellerie o nelle salumerie più fornite. È squisita tagliata a fettine e abbinata con il paté di fegato e la gelatina.
I muscoli masseteri sono noti anche come guanciali o guancialini poichè sono i muscoli delle guance, usati per la masticazione. Da non confonderli con il taglio grasso del maiale, ottenuto dalla “guancia”, tra testa e spalla, simile, come composizione, alla pancetta (gorge dei francesi). Sono parti muscolari non dissimili dalle altre presenti negli animali dai quali sono ottenute salvo che per la loro magrezza e tenerezza.
Il diaframma si presta moltissimo all’alimentazione del bambino per la consistenza tenera e la buona quantità di ferro. Gran parte dei diaframmi è usata per le carni in scatola.
La coda di manzo è un taglio povero, molto saporito, in cui abbondano le ossa, ma la carne è sempre molto tenera e magra. Particolarmente indicata per brasato e umidi, ottima insieme al bollito misto. Diverso è il codino di vitello, indicato per cotture arrosto, un taglio di carne vero e proprio, venduto, su richiesta, abbinato alla coda.
La cute della testa di vitello (testina) quasi sempre si acquista dal macellaio già disossata ed arrotolata, altrimenti è necessario provvedere alle seguenti operazioni che richiedono un certo tempo: fiammeggiarla, lavarla, tenerla a bagno in acqua fredda per alcune ore e, poi, sbollentarla. Il peso di una testina di vitello, in genere, è intorno ai 5 kg.
La testina deve essere lessata da sola; richiede una cottura di circa un’ora e mezzo se lasciata intera e poco meno se tagliata a pezzetti; l’acqua deve essere salata e aromatizzata con cipolla, sedano e carota o erbe odorose secondo i gusti. Per mantenere inalterato il colore bianco della carne, si consiglia di aggiungere all’acqua di cottura un po’ di succo di limone e un cucchiaio o due di farina, mescolando velocemente per evitare che si formino grumi. Il grado di cottura si controlla pungendo la testina con una forchetta: è pronta quando risulta tenera e non più gelatinosa. Una volta sgocciolata, va lasciata raffreddare e poi tagliata a piccoli pezzi. L’acqua di cottura non deve essere usata. La testina può essere consumata, sia calda sia fredda, accompagnata da salse piccanti: quella verde è la più indicata.
Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, è stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastronomie.
Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri.
Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastronomie.
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