I prezzi sostenuti degli alimenti zootecnici, dei concimi, dell’energia e di altre commodity come il ferro stanno erodendo, ormai da quasi un anno e mezzo, in maniera preoccupante il guadagno degli allevatori di bovine da latte.
Ha fatto ben sperare, ma senza un facile entusiasmo, la firma il 10 novembre 2021 di un protocollo per una intesa di filiera per la salvaguardia degli allevamenti italiani tra organizzazioni agricole, Alleanza delle Cooperative Italiane – Settore agroalimentare, Assolatte e GDO, di cui il Ministro Stefano Patuanelli si è fatto garante. Tale accordo avrebbe in qualche modo “livellato” a 41 centesimi/litro (IVA esclusa) il prezzo del latte bovino alla stalla. Secondo le informazioni in nostro possesso ad oggi, ossia dopo oltre due mesi dalla firma del l’accordo, non ci sono però stati aumenti di prezzi dovuti a questo “protocollo”.
Nel nostro Paese, in assenza di un metodo oggettivo ed esteso di monitoraggio dei principali centri di costo e di ricavo, le trattative sul prezzo del latte alla stalla ricordano più quelle che avvengono nel mercato delle spezie di Istanbul che quelle che la logica e la modernità suggerirebbero di fare. Non credo che ciò sia dovuto a sciattezza o incapacità, ma sembra più esprimere la convenienza a cronicizzare il caos e l’incertezza in modo da far emergere il “salvatore” di turno quando serve.
Queste condizioni d’incertezza, secondo i dati della BDN, hanno portato alla chiusura del 42% degli allevamenti di bovine da latte nel periodo che va dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2021. È vero che il numero dei capi è calato meno vistosamente (- 74.000) del numero delle stalle, e che la produzione di latte è altrettanto vistosamente aumentata, ma questa “selezione naturale” ispirata dal “sacro” principio dell’economia di scala ha intaccato profondamente la sostenibilità sociale di questa branca della zootecnia. I margini sempre più ristretti e le molte aziende che si stanno sempre più indebitando verso banche e fornitori, obbligano gli allevatori, per sopravvivere e sperare in tempi migliori, a tentare di aumentare al massimo sia la produzione pro-capite che complessiva dell’allevamento, forzando le diete e aumentando il sovraffollamento e il tasso di rimonta. Quando si devono operare drastici tagli ai costi, anche del personale, per sopravvivere, non si può essere scrupolosamente rispettosi dell’igiene e del benessere degli animali e fare gli investimenti necessari all’adeguamento degli allevamenti alle pressanti richieste dell’opinione pubblica.
Sembrerebbe logico che se aumentano i costi di produzione di una produzione primaria come il latte, tutta la filiera riversi sul consumatore tale situazione semplicemente aumentando il prezzo al pubblico di latte e formaggi. Da come stanno andando le cose sembrerebbe che ciò non sia possibile, almeno sulla carta, anche se la “sensazione” è che qualche ritocchino ai prezzi, dal tempo del lockdown ad oggi, la GDO lo abbia fatto. In realtà gli allevatori non chiedono aumenti stratosferici ma proporzionali all’incremento dei costi di produzione che stanno subendo, e che sarebbero facilmente quantificabili se lo Stato li volesse veramente aiutare. Sempre in teoria, sarebbe anche semplice per la GDO utilizzare i claim che il consumatore chiede, ma che trova poco o per nulla sulle etichette dei prodotti del latte, per aumentarne i prezzi. Claim in parte già disponibili negli allevamenti oppure facilmente generabili. Ricordo che qualche anno fa assistetti alla trattativa del prezzo del latte alla stalla del latte di montagna biologico dell’STG “latte fieno”, da utilizzare per produrre yogurt. Il Presidente di una famosa azienda italiana, di cui per ragioni di privacy ometterò il nome, quando offrì agli allevatori un prezzo molto più alto delle loro aspettative si meravigliò del loro stupore. La frase che pronunciò in risposta alla sorpresa degli allevatori e che mi colpì fu grosso modo questa: “non pensate che sia io così generoso da darvi tutti questi soldi. La mia azienda ha una reputazione elevatissima, e un controllo qualità e un ufficio marketing così efficienti da essere sicura che i claim e le caratteristiche organolettiche dello yogurt fatto con il vostro latte e che commercializzeremo rassicureranno i consumatori al punto che questi vorranno spendere di più per acquistarlo.“
Salve le sempre dovute eccezioni, sembra che la filiera del latte non abbia idee nuove, non sia in sintonia con i consumatori e l’opinione pubblica, e sia convinta di basare il suo futuro sull’erosione della marginalità di ogni suo anello. Il tirare così ostinatamente la corda nel non voler concedere agli allevatori un prezzo del latte alla stalla più equo sta mettendo potenzialmente a rischio quelle che ora sono le motivazioni principali che portano la gente a scegliere formaggi italiani. La provenienza italiana del latte è sinonimo di sicurezza alimentare, percepita positivamente sia dai consumatori italiani che da quelli stranieri, buone condizioni di vita degli animali e sostenibilità, che sono motivazioni d’acquisto importanti e ampiamente documentate. Il perdurare di questo logorante braccio di ferro sta però creando tutti i presupposti affinché questi aspetti si indeboliscano al punto da non poterli più utilizzare con sicurezza.
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