ll mercato zootecnico globale ha accettato la sfida di modificare il proprio standard di produzione delle proteine animali, in linea con i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. E, in riferimento specifico al n. 3 “Buona salute e benessere”, raggiungere l’obiettivo della produzione AB-free.

Al di là dell’indicazione di merito dell’ONU, esistono due (gruppi di) soggetti che guidano questo cambiamento di paradigma:

  1. Il potere pubblico, come ad esempio l’imminente bando stabilito dalla Comunità Europea sull’uso in profilassi e metafilassi degli antibiotici, il bando nell’uso preventivo dell’ossido di zinco della UE o ancora il recente divieto di utilizzazione degli AGP in Cina.
  2. I soggetti privati ​​(es. McDonald’s, Tesco, ecc.) che, reagendo alla richiesta del consumatore finale di proteine animali proveniente da allevamenti “AB-free”, rimontano questa richiesta ai loro fornitori (cioè ai gruppi integrati della produzione animale) per ridurre o interrompere qualsiasi uso di antibiotici.

Un esempio di questo impatto è riportato nel grafico seguente, che mostra l’effetto della campagna NAE (No Antibiotic Ever) negli USA dal 2013 al 2019.

Inoltre, questa scelta è supportata da evidenze scientifiche che dimostrano l’esistenza di un rischio crescente di resistenza agli antibiotici in grado di arrivare a toccare, entro il 2050,  i 10 milioni di morti nella popolazione mondiale (OMS 2017).


Gli Allevamenti hanno bisogno di un maggiore controllo. La gestione degli allevamenti senza antibiotici per contribuire al raggiungimento degli obiettivi ONU sopra menzionati non riduce purtroppo il rischio di contaminazione e circolazione batterica fra gli animali. Allevatori e Veterinari sono quindi obbligati a guidare un cambiamento impressionante nella gestione dell’azienda agricola che, passando per una riduzione programmata nell’uso di qualunque tipo di antibiotici, ottenga l’obiettivo di mantenere la sanità degli allevamenti e degli animali per arrivare infine a ottenere la migliore produzione quali-quantitativa possibile di proteine ​​animali.

Questo poderoso sforzo si dovrà svolgere attraverso 3 azioni distinte ma imprescindibili:

  1. Una migliore qualità nutrizionale (Precision Feeding, cioe’ “alimentazione di precisione”)
  2. Una migliore gestione dell’azienda agricola (Precision Farming, cioe’ “allevamento di precisione”)
  3. Un incremento del tasso di vaccinazione in allevamento e sul territorio

Non sarà mai inutile ripetere che la qualità delle materie prime rimane la base del Precision Feeding. Ma questo non basta: da tempo esistono prodotti, noti come “additivi alimentari” utilizzati finora per integrare le carenze quali-quantitative dei mangimi: amminoacidi essenziali come la lisina o la metionina, le vitamine (A, E, gruppo B) i minerali sono strumenti ben noti all’allevatore e ai formulisti. A queste categorie tradizionali, si sono aggiunti a partire dalla fine degli anni ’80, “nuovi additivi alimentari” come enzimi, probiotici, prebiotici, fitogenici e acidi organici: inizialmente utilizzati per migliorare “solo” l’azione digestiva intestinale, negli ultimi tempi sono divenuti gli strumenti principali per assicurare l’utilizzazione ottimale della razione, quindi la sanità dell’intestino, quindi la risposta immunitaria quindi la “resilienza” dell’animale.

Passando alla Precision Farming, possiamo distinguere 3 azioni:

  1. Sostenere il Precision Feeding, cioè permettere agli animali di avere sempre la giusta razione di mangime e di acqua e anche immaginare l’utilizzo degli additivi alimentari “esclusivamente nutritivi”, come ulteriore supporto allo sviluppo della resilienza animale.
  2. attivare la Biosicurezza: ridurre le possibilità che una malattia infettiva venga portata in un allevamento da persone, animali, attrezzature o veicoli. Significa anche evitare che la malattia esca dall’allevamento
  3. Formazione di tutto il personale dell’azienda agricola per applicare le 2 pratiche di cui sopra.

I veterinari sono ben formati sulla gestione della vaccinazione, ma lasciano troppo spesso ad altre figure professionali i punti 1 e 2: a mio avviso, questo ridotto interesse deriva da una formazione universitaria in cui la gestione della “rottura dell’omeostasi” viene affrontata più dal punto di vista clinico che da quello della gestione dell’azienda. L’approccio “Veterinario Aziendale” rischia di rimanere più sulle soluzioni emergenziali dei problemi che dedicato ad una pianificazione aziendale: deve invece divenire l’azione coordinata e continuativa di “attori della resilienza”.