Il Comitato Bioetico per la Veterinaria e l’Agroalimentare ha recentemente pubblicato un documento dal titolo “Conservazione dell’agrobiodiversità, sostenibilità per gli agricoltori e profili bioetici” che si pone la questione di rispondere ad esigenze contrastanti circa il futuro alimentare e ambientale.
Infatti, mentre da un lato permane l’esigenza di produrre cibo qualitativamente buono, nutriente, sano, a prezzi contenuti e in quantità soddisfacente, dall’altro si afferma la necessità di mantenere sistemi agricoli che abbiano un impatto positivo o limitato sull’ambiente, rispettosi della diversità biologica, della storia, delle tradizioni culturali e del paesaggio. Il terzo aspetto riguarda la necessaria garanzia della soddisfazione economica e sociale dell’agricoltore, attraverso il suo libero esercizio e il diritto d’impresa. Questo documento si propone di offrire alcuni spunti per incoraggiare riflessioni, comportamenti, politiche e interventi che possano riconciliare le tre esigenze descritte.
Di seguito, il commento di Alessandro Fantini sul documento, pubblicato sul n.5 (2020) di The Future of Science and Ethics, la rivista scientifica a cura del Comitato Etico di Fondazione Umberto Veronesi.
Nel mese di Giugno del 2020 il Comitato Bioetico per la Veterinaria e l’Agroalimentare (CBV-A) ha diffuso un interessante documento dal titolo “Conservazione dell’agrobiodiversità, sostenibilità per gli agricoltori e profili bioetici”. Per comprendere bene le raccomandazioni che questo testo fa, sono doverose alcune premesse. In questo documento, il termine “agricoltura” ricomprende il significato letterale del termine ma anche la zootecnia.
Il modello di sviluppo che si è adottato fino ad ora per l’agricoltura intesa come produzione primaria di cibo vegetale e animale è quello intensivo, che per l’Europa, e quindi anche l’Italia, inizia nel dopo-guerra. La priorità iniziale era di mettere a disposizione della gente cibo in grande quantità per affrancarla dalla fame patita in decenni, o meglio secoli, di privazioni. Solo in seguito divenne importante che questo cibo fosse salubre e nutriente. Con questo obiettivo, era ovvio che l’agricoltura adottasse il modello intensivo puntando su poche essenze botaniche altamente selezionate e specie e razze animali molto produttive ed efficienti nella conversione degli alimenti zootecnici. Il metodo “intensivo” è tuttora quello più diffuso nel mondo e ha il vantaggio di aver contribuito a produrre tanto cibo buono, sicuro ed economico ma ad un “prezzo” che il pianeta e tanti esseri umani non possono più sopportare per le tante contraddizioni che ha esasperato.
L’agricoltura intensiva come è stata fin qui concepita, e che chiameremo tradizionale, ha concentrato la ricchezza in mano a grandi proprietari terrieri e alle multinazionali del cibo e dei “mezzi” agricoli, rendendo precaria e insufficiente la redditività degli agricoltori, e specialmente di quelli delle aree interne e marginali.
È bene sempre ricordare che le aree di pianura occupano il 23.2% del nostro Paese mentre il 76.8% sono aree collinari e montane in buona parte anche classificate come aree interne o marginali.
Il documento del CBV-A chiarisce già nei primi paragrafi che cosa significa agrobiodiversità e la differenza che c’è rispetto alla biodiversità. Nel 1999, la FAO la definisce in questo modo: “agrobiodiversità comprende la varietà e variabilità di animali, piante e microrganismi che sono importanti per il cibo e l’agricoltura e che sono il risultato delle interazioni tra l’ambiente , le risorse genetiche e i sistemi di gestione e le pratiche usate dagli uomini”. La biodiversità è una definizione più ampia perché comprende tutti gli esseri viventi e non solo quelli domesticati dall’uomo. Per come è concepita oggi, l’agricoltura intensiva è l’ossimoro dell’agrobiodiversità mentre è ancora parzialmente praticata nelle aree interne o marginali del nostro paese, se pur tra mille difficoltà.
Il lettore attento a questo punto dovrebbe cominciare a sollevare alcune perplessità verso chi nega l’inevitabile opzione dell’allevamento intensivo tradizionale.
Perché metterlo in discussione quando in questi decenni ha prodotto cibo sano e in quantità, per gran parte della popolazione? Perché deve essere un problema che il possesso di gran parte della terra coltivabile e della genetica vegetale e animale sia in mano a poche e gigantesche multinazionali?
Quando diventa consumatore, la gente è ormai in buona parte satolla. I poveri assoluti in Italia sono purtroppo ancora presenti e in gran numero. Si stima siano 5 milioni di persone, e nei confronti di essi abbiamo il dovere morale di metterli in condizioni di accedere al cibo. La restante parte della popolazione italiana ha profondamente cambiato il suo rapporto con il cibo e ciò sta “dettando l’agenda” dell’industria agroalimentare e della Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Si tende a un consumo consapevole e attento alla sostenibilità ambientale, al benessere animale, alla salute personale, ma non ancora attento alla sostenibilità sociale, ossia alla qualità della vita degli agricoltori.
L’industria agroalimentare è ben consapevole di questa rapida e costante evoluzione dei desiderata di buona parte dei consumatori. Due sono state le risposte che ha confezionato. La prima è quella di aumentare “l’agrobiodiversità” della sua offerta proponendo nuove referenze e la seconda è quella di utilizzare l’etichettatura facoltativa e la comunicazione per inviare alla gente messaggi “bucolici & naïf” per lo più lontani dalla verità delle produzioni agricole e zootecniche, specialmente da allevamenti intensivi. La crescente diffidenza dei consumatori li ha resi più attenti a leggere le etichette e le continue inchieste giornalistiche che accertano la contraddizione tra quanto viene narrato e la realtà delle produzioni agricole e zootecniche intensive tradizionali.
Un fatto nuovo anche citato nel documento del CBV-A, e che sta occupando molto il dibattito sull’agroalimentare, è quello che molta parte del Made in Italy non è prodotto con ingredienti primari italiani. Testimonianza ne è l’opposizione che le associazioni che rappresentano l’industria agroalimentare stanno facendo ai decreti che impongono la dichiarazione obbligatoria in etichetta e sulle confezioni dell’origine della materia prima principale (≥ 50%) presente nel prodotto. Una famosa locuzione latina dice: “in medio stat virtus”, che in questo caso significa che l’industria agroalimentare ha in parte ragione perché non trova in Italia tutta la produzione primaria di cui ha bisogno, ma l’aspetto negativo è che, invece di cercare una soluzione a questo problema, chiedendo all’amministrazione dello Stato di aumentare le superfici dove si allevano gli animali e si coltivano le materie prime e di ridurre il consumo del suolo, si preferisce giocare con i consumatori sull’equivoco. Il consumatore italiano e straniero, anche se ondivago nelle sue opinioni, non cerca il Made in Italy perché convinto che abbia una sicurezza e qualità superiore rispetto al cibo straniero ma principalmente lo fa perché l’agroalimentare italiano trasuda di cultura, tradizioni, odori, sapori e colori. Il fatto poi che la dieta mediterranea sia considerata il gold standard salutistico rafforza ulteriormente questa opinione.
Questo contesto ha fatto maturare in molti la convinzione che affrontare il tema dell’agrobiodiversità in modo fattuale e olistico sia l’unica scelta, da fare anche rapidamente, ma da fare razionalmente. Nel documento del CBV-A, si evoca la nascita di un “laboratorio del nuovo” dove discutere di quale traiettoria è giusto seguire per dare una razionalità alla gestione dell’agrobiodiversità italiana. Tutto il Comitato ha condiviso che è necessario dare la priorità, ma non l’esclusività, a riconvertire verso i principi dell’agrobiodiversità non già l’agricoltura intensiva delle pianure irrigue, ma quelle che vengono definite aree marginali o interne, che come abbiamo già detto occupano buona parte della superficie del nostro paese e dove vivono il 23 % dei nostri connazionali.
Ma cosa significa, in pratica, secondo il Comitato Bioetico per la Veterinaria e l’Agroalimentare una riconversione delle aree marginali italiane verso l’agrobiodiversità? E soprattutto, quali possono essere gli altri benefici per la collettività? Il modello intensivo di agricoltura, e il modo attraverso cui lo Stato e la Comunità europea lo ha economicamente sovvenzionato, ha indotto un generale abbondono delle aree marginali dove comunque la vita è difficile vista la distanza geografica e culturale dalle scuole, dagli acquisti e dalle infrastrutture sanitarie. Sostenere piccole produzioni locali da terre di per sè difficili adottando la mentalità e i criteri dell’agricoltura intensiva tradizionale di pianura è stato un fallimento sociale ed economico. La presenza in questa parte del territorio italiano di agricoltori visti come “custodi” del territorio, delle tradizioni, del patrimonio architettonico, della biodiversità genetica sia domestica che selvatica e del cibo locale deve essere percepita dalla collettività come una risorsa per contrastare la povertà, salvaguardare l’occupazione e manutenere i territori a rischio di dissesti idrogeologici e incendi. Il documento del CBV-A evoca un passaggio culturale da un’agricoltura sussidiata a un’agricoltura retribuita proprio per la sua azione di custodia del territorio. È auspicabile che i principi dell’agrobiodiversità si estendano alla riconversione dell’agricoltura intensiva tradizionale delle pianure proprio per i problemi che sta creando all’ambiente, al profitto degli agricoltori e al benessere degli animali.
Il CBV-A nel suo documento “Conservazione dell’agrobiodiversità, sostenibilità per gli agricoltori e profili bioetici” dedica le sue ultime pagine alle conclusioni e alle raccomandazioni a chi prima o poi dovrà iniziare la stesura di un piano agricolo nazionale e di tutela del suolo dal consumo, o meglio, dalla copertura di fatto irreversibile con cemento, asfalto o altri materiali artificiali che procede, secondo il rapporto Ispra 2019, di 16 ettari al giorno. Ogni abitante italiano ha oggi in “carico” 344 m2 di superfici non più coltivabili che corrispondono grosso modo al 7.1% del territorio del nostro Paese. Questa non esemplare dote cresce di ben 2 m2 all’anno. La lettura integrale del documento del CBV-A “Conservazione dell’agrobiodiversità, sostenibilità per gli agricoltori e profili bioetici” è altamente raccomandabile per meglio approfondire l’argomento.
Il documento è disponibile integralmente qui: Conservazione dell’agrobiodiversità, sostenibilità per gli agricoltori e profili bioetici
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