Che i media abbiano influenzato per decenni gli acquisti dei prodotti alimentari è un dato di cui abbiamo memorie storiche, geografiche ma soprattutto culturali. Ma il dato su cui tentiamo di porre una certa opposizione mentale è l’accettare che ai giorni nostri questo modello comunicativo non è più compatibile con il nostro stile di vita.
Durante gli anni Sessanta del boom economico si assiste a una nuova era del consumo, un vero e proprio processo di mutamento antropologico, di un nuovo rapporto tra uomo e prodotti alimentari. Il consumatore si ritrova a non poter più vedere, assaggiare o annusare i comuni prodotti alimentari, perché contenuti in confezioni, scatole, lattine, coperti dal cellofan o addirittura surgelati.
I sensi, dapprima utilizzati direttamente sui prodotti, adesso sono veicolati attraverso i messaggi del packaging e le pubblicità. Questo, consentì ai marchi, ancora oggi esistenti, la costituzione di nuove forme di fiducia nei prodotti, che potevano riscattarsi dalla mediazione del “negoziante di quartiere” al quale tradizionalmente il cliente si affidava per suggerimenti e consigli. Insomma la televisione, fu in questo caso, il veicolo di comunicazione per antonomasia: fondò un uno dei tanti linguaggi del consumo che ancora oggi riconosciamo e, che ci piaccia o meno, ci appartengono. Basti pensare alla pubblicità di una qualche marca a noi familiare per renderci conto di quanto essa sia radicata nella nostra memoria in tutto e per tutto.
Ciò che manca all’appello del modello comunicativo anni 60′, sono i dettagli dei singoli prodotti: le tipologie di ingredienti utilizzati, la loro provenienza e via discorrendo. Tutti elementi che oggi, per fortuna, sono menzionati in etichetta e riconducibili, se vogliamo, a una determinata scelta alimentare.
La “scelta”: forse è proprio questa la parola chiave in fondo, perché l’arte del saper scegliere non è affatto semplice quando ci si ritrova di fronte al banco frigo alimentare o ancor peggio quando non si ha idea di come vada interpretata un’etichetta.
E se è vero che “siamo ciò che mangiamo”, è necessario far sì che le nuove generazioni, dalle più piccole alle più grandi, si avvicinino a uno stile di vita sano e consapevole sulle scelte di consumo alimentare; partendo da una migliore conoscenza dei prodotti, della filiera produttiva e del suo legame con il territorio, sino all’interpretazione dell’etichetta.
Si tratterebbe, forse, di coniare un nuovo linguaggio, dando spazio ad una nuova narrazione sull’educazione alimentare, un nuovo approccio a ciò che, banalmente, mangiamo ogni giorno dalle nostre tavole.
Una missione che Giuseppe Palosti, allevatore e produttore lattiero-caseario della Società Agricola IV Novembre di Lodi, dal 2016 compie nelle scuole della Lombardia.
Giuseppe, di cosa tratta precisamente?
«L’educazione alimentare nelle scuole, è un progetto nato da noi allevatori che insieme a ex professori in pensione, cerchiamo trasmettere un messaggio positivo riguardo al consumo del latte e a tutta la filiera. Partendo dalla terra sino ad arrivare ai prodotti finiti destinati al consumatore».
A quali classi è rivolta?
«Inizialmente andavamo principalmente nelle scuole dell’infanzia e primarie, con il tempo siamo giunti anche nelle Università di Milano».
Com’è l’approccio con i bambini rispetto a tematiche complesse?
«Con i bambini abbiamo sempre spiegato tutto in modo giocoso. In inverno, cerchiamo di riprodurre una mini fattoria in classe, fatta di cartone. Invece, in estate portiamo anche qualche vitellino. Certo da allevatori non eravamo abituati a parlare ai bambini, ma alla fine le soddisfazioni più belle le abbiamo ricevute proprio da loro perché avendo un legame ancora molto forte con il latte, che con il tempo si sa, tende a svanire, erano molto entusiasti nel vedere il percorso della sua produzione».
Quali sono i temi che vengono trattati?
«All’inizio parlavamo di sostenibilità ma oggi preferiamo chiamarla “filiera armonica”, perché una filiera in armonia crea una situazione positiva per tutti i suoi attori, dagli animali al mangimista, agli agricoltori. Siamo tutti parte integrante di un processo che giunge al consumatore. Molti tendono a vedere solo l’aspetto commerciale di un prodotto, quando in realtà c’è tutta una storia dietro. Fatta di persone, di impegno e sacrificio. Anche il tema della transumanza, oggi patrimonio UNESCO, ha una tradizione molto forte che abbiamo la fortuna di poter tramandare alle nuove generazioni».
Quali sono oggi le sfide della filiera?
«Parlare al consumatore e renderlo partecipe e cosciente dei prodotti. Noi personalmente parliamo di latte a 360 gradi, quindi anche dal punto di vista medico. Con il Prof. Claudio Macca, con cui collaboriamo, abbiamo infatti potuto far conoscere le proprietà benefiche del latte. La lattoferrina, ad esempio, è una proteina del latte che ha un’azione antibatterica e antivirale, tanto da definirla una vera e propria medicina. Inoltre, una delle maggiori sfide oggi sono i costi del latte».
Avete mai aperto con i bambini un dialogo legato al tema della macellazione?
«Assolutamente sì. E lo raccontiamo nella maniera più semplice che possa esistere: che l’animale raggiunge il suo fine vita perché è parte di un ciclo. Il bovino, come tanti altri animali, è per natura preda. Ogni predatore, per alimentarsi, preda e dunque uccide. Noi abbiamo bisogno di nutrirci di questi animali, esattamente come qualsiasi altro predatore. Quello che accade ai nostri animali al macello, spiego ai bambini, è però molto diverso da quello che accadrebbe nel loro stato di natura, dove non ci sono protocolli per cui esso vi possa giungere senza alcuna sofferenza e dove vivrebbe ogni giorno nel terrore di essere catturato».
Come hanno reagito?
«I bambini, ovviamente, fanno domande, rimangono un pò sconcertati, ma è naturale. Vedendo il tutto come un passaggio della vita capiscono però che non c’è accanimento, non c’è malvagità in tutto ciò. Siamo noi adulti che molto spesso ci poniamo dei limiti a riguardo, loro sono liberi da questi stereotipi. Non vedono il male dove non c’è».
Lei come definirebbe la macellazione?
«Un passaggio obbligato. L’uomo moderno non lo vuole accettare perché ha allontanato da sé il proprio stato di natura. Si è allontanato dalla campagna, dalle sue origini e dalla sua primordialità. Questo ha senz’altro contribuito a instillare pensieri e scelte a detta di molti “etiche” e utili per la salvaguardia degli animali.
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