Il 18 e 19 Novembre si è tenuto in versione digitale il 1° Congresso dell’Istituto di Bioetica per la Veterinaria e l’Agroalimentare. Il tema della prima sessione del secondo giorno è stato: “La divulgazione scientifica nell’agroalimentare: i due versanti del mondo dei produttori e quello dei consumatori messi a contatto”.

Il mio intervento si è focalizzato sulla divulgazione scientifica al mondo produttivo, ossia al primario, secondario e terziario. Ho dato la mia disponibilità in quanto nel corso della mia vita professionale, a vario titolo, ho avuto la necessità e il piacere, e ce l’ho tuttora, di usufruire delle evidenze scientifiche per formulare mangimi e razioni, scegliere additivi e più in generale esercitare la mia professione di consulente e di divulgatore tecnico-scientifico. La mia esperienza professionale è duplice: da un lato sono un medico veterinario che esercita la sua professione come consulente per buona parte delle categorie di attori della filiera che produce cibo di origine animale, per cui sono obbligato a fruire delle evidenze scientifiche; dall’altro, sono divulgatore tecnico e scientifico tramite la rivista Ruminantia che dirigo e per cui sono coinvolto anche nella selezione e nell’intermediazioni di scegliere quali ricerche diffondere e in quale modo.

L’argomento oggetto di questo simposio è diventato quanto mai attuale e per due ragioni sostanziali.

La prima è la crescente consapevolezza del ruolo deleterio che ha la disinformazione sulla collettività, soprattutto quando ci sono situazioni gravi come la pandemia di Covid-19 oppure ogni qualvolta l’opinione pubblica deve stringersi compatta verso una qualsiasi emergenza o contingenza.

La seconda è che la comunità scientifica, ossia la sorgente delle evidenze scientifiche e del pensiero di qualità, non è sempre sensibile alla diffusione della sua produzione al di fuori della comunità stessa. Questa affermazione dovrebbe sorprendere, visto che il terzo pilastro della comunità scientifica è quello della dissemination, oltre alla didattica e alla ricerca; anche perché queste attività sono nella stragrande maggioranza dei casi finanziate dalla collettività e quindi da fondi pubblici e, di conseguenza, dai cittadini e dalle imprese.

Pur tuttavia, nell’ambito delle scienze animali e della medicina veterinaria c’è una parte dei docenti universitari e di ricercatori che svolge una incessante opera di divulgazione scientifica.

Era già successo, ma durante la pandemia abbiamo assistito ad un drammatico crollo della credibilità della comunità scientifica che si occupa di salute umana, divisa e litigiosa su cosa fare per contrastare il Covid-19. Quello che è normale, ossia avere sugli argomenti nuovi non ancora solidificati dalle certezze scientifiche pareri discordanti, è apparso all’opinione pubblica uno spettacolo grottesco che ha autorizzato la gente a cercare certezze in rete o meglio nella prima pagina della SERP di Google. Molta gente non sa cosa sia l’indicizzazione SEO, la SERP e come fa Google ad indicizzare le pagine. È diffusa la certezza che la qualità di una informazione dipenda dall’ordine in cui viene indicizzata.

Non c’è da stupirsi di ciò. Una volta si diceva “l’ha detto la televisione”, oggi si dice “l’ha detto Google”.

Il criterio di reclutamento degli esperti operato dai media, ossia la così detta “intermediazione”, nella maggior parte dei casi non è stato scientiometrico ma influenzato dalla telegenicità, dalla fluenza della retorica, dall’estetica, dall’aggressività nei talk show e da una non specificata notorietà, concetti ben diversi dalla definizione “di chiara fama” che accumuna scienziati e professionisti di qualità. La scientiometria, che si occupa della misura e dell’analisi della scienza e delle produzioni scientifiche, con i suoi strumenti come l’impact factor, l’h-index, etc., avrebbe fornito ai giornalisti gli strumenti migliori per scegliere questo o quell’esperto da intervistare. Gli avrebbe permesso di distinguere gli appartenenti alla comunità scientifica da quelli della comunità dei professionisti, e forse tutto questo avrebbe salvato delle vite umane, e forse non avrebbe permesso il successo del Prof. Google e dei sui seguaci.

La maggior parte della gente non conosce che cosa sia il metodo scientifico, e purtroppo anche molti professionisti. Non conosce come i paradigmi, ossia le certezze condivise, ad un certo punto crollino e siano aggiornati, in un ambito che si chiama progresso.

Questa rappresentazione, divenuta tragedia, si osserva da tempo immemore anche nell’ambito del terziario, sia pubblico che privato, e più in generale nel mondo produttivo. Le evidenze sono il presupposto dello sviluppo tecnologico in tutti gli ambiti delle attività umane.

L’ambito professionale e industriale (R&D) per potere attingere alle evidenze scientifiche non ha la necessità dell’intermediazione dei giornalisti ma si utilizza le revisioni narrative, le società scientifiche, i congressi e comunque i motori di ricerca. L’accesso diretto alle riviste peer reviewed è comunque molto parziale e casuale, perché la maggior parte dei paper non è open access.

Il problema dell’open access credo stia arrivando all’epilogo, e per questo voglio testualmente riportare quanto contenuto in un’informativa diffusa dall’American Dairy Science Association relativamente alla sua rivista peer reviewed Journal of Dairy Science. Questa rivista scientifica è classificata sesta, con un Impact Factor di 4,034, tra le prime 63 riviste scientifiche nell’ambito dell’agricoltura, i prodotti lattiero-caseari e le scienze animali. Per fare un confronto, 49,962 è l’Impact Factor di Nature e 41,895 quello di Science.

“L’American Dairy Science Association (ADSA) è lieta di annunciare che il Journal of Dairy Science (JDS) diventerà una rivista gold open access (OA) con il numero di gennaio 2022. Ciò significa che gli autori che pubblicano nel JDS possono rendere il loro lavoro immediatamente, permanentemente e liberamente accessibile in tutto il mondo. Gli autori JDS pagheranno una tassa di pubblicazione dell’articolo (APC), avranno una scelta di opzioni di licenza e manterranno il copyright sul loro lavoro pubblicato. Questo cambiamento è molto vantaggioso per gli autori perché OA fornisce ai lettori un accesso gratuito e immediato alla ricerca scientifica e offre ai nostri autori maggiori opportunità di diffondere il loro lavoro a beneficio della comunità accademica e della filiera del latte.”

Poter fare in modo che il mondo produttivo e delle professioni acceda illimitatamente alla ricerca scientifica sarà anch’esso un grande progresso. Permetterà ai professionisti di migliorare la qualità del loro lavoro e all’industria di sviluppare nuove e migliori tecnologia; sarà quindi la tecnica a trarne i maggiori benefici.

Al contempo, anche la comunità scientifica ne trarrà dei vantaggi; avrà infatti un feedback dall’esterno che darà nuovi spunti di ricerca sia di base che applicata. Questo risolverà anche l’aspetto morale di una ricerca finanziata con risorse pubbliche, ossia dei contribuenti, ma accessibile solo a pagamento dagli stessi contribuenti.

Per un professionista, un industria, un giornalista specializzato, ma più in generale uno stakeholder, districarsi tra le pubblicazioni scientifiche, sia open che non open access, è diventato molto complicato, soprattutto per valutarne la qualità e effettiva imparzialità.

In pratica, chi non è uno scienziato o un docente, parte dalle ricerche organiche e degli articoli non open access può tuttalpiù scaricare l’abstract. Se vuole leggerlo tutto deve pagare senza aver avuto modo di valutarne prima la qualità. Il criterio che spesso si utilizza è il lasciarsi influenzare dalla notorietà della rivista oppure dalla notorietà dell’autore.

Esempi di “interferenze” delle lobby o di singoli gruppi industriali ad orientare la ricerca ce ne sono tante e allo scopo consiglio la lettura di “Mercanti di dubbi” di Naomi Oreskes e Erik Conway.

Ogni anno viene pubblicato un numero enorme di articoli scientifici su circa 30.000 riviste scientifiche; parliamo di circa 2.000.000 di articoli l’anno.

Chi divulga la scienza e chi la utilizza per lo sviluppo tecnologico dovrebbe riuscirne a valutarne la qualità e l’imparzialità, e soprattutto saperlo fare.

Lo stesso problema lo hanno le società scientifiche quando devono reclutare i relatori e hanno degli sponsor. La cosa non è negativa in senso assoluto ma bisogna stare molto attenti.

Utili allo scopo sono le metanalisi e le systematic review.

Nell’ambito delle scienze biomediche, e quindi anche la veterinaria la medicina basata sull’evidenza, è forse la migliore delle soluzioni.