Il rapporto dell’uomo con la natura, e quindi con i restanti abitanti della terra e l’ambiente, è sempre stato difficile. La natura si sa ha le sue leggi, basate essenzialmente su una competizione senza esclusione di colpi tra le specie animali e vegetali che la abitano e le risorse naturali. La cultura giudaico-cristiana ha investito l’uomo di un ruolo dominante, assoggettando a lui le sorti del “creato”. L’Homo sapiens si è differenziato dalle altre specie di ominidi 250.000 anni fa e da allora si è diffuso su tutto il pianeta, plasmandolo per le sue esclusive esigenze.

In questa fase delle ere geologiche definita antropocene, poco è rimasto di “naturale”. Le specie animali e vegetali non domesticate sono sempre più rare, e molte si sono estinte. Anche le foreste primigenie stanno scomparendo perché sostituite dall’agricoltura o da boschi e praterie comunque profondamente manipolati dall’uomo. Nel corso di questi lunghi anni, quando l’uomo trasformò il suo stile di vita da cacciatore-raccoglitore nomade ad agricoltore stanziale, iniziò la domesticazione e poi la selezione genetica delle specie animali e vegetali più funzionali alle sue esigenze. Il resto degli organismi viventi, dai virus ai predatori, fu classificato o come cibo da predare o da estinguere. L’antropocene ha illuso l’uomo facendogli credere che, tramite la scienza e la tecnica, la guerra alla natura fosse definitivamente vinta, e che egli ne avesse ormai il domino incontrastato. A salvarsi, solo le specie domesticate e selezionate, mentre il selvaggio è stato relegato in parchi e riserve, come avvenne per gli Indiani d’America, o negli zoo.

A sparigliare le carte due eventi importanti. Il primo: la constatazione che l’impiego massiccio di risorse naturali e un sistema energetico basato sui combustibili fossili stava provocando un profondo cambiamento climatico, e quindi il definirsi di un futuro tutt’altro che roseo per la stessa umanità oltre che per la terra. Il secondo è stato il Sars-Cov-2, un coronavirus che ha fatto un salto di specie a Wuhan oppure una fuga da un laboratorio sempre in questa città della Cina, che ha sconvolto l’economia, gli stili vita dell’umanità e tante regole sociali. Questi due eventi stanno facendo riflettere molto l’umanità, o solo una parte di essa, sul fatto che forse l’uomo non è così onnipotente e invincibile e che con la natura bisogna scendere a patti perché questa guerra iniziata 250.000 anni fa forse non la può vincere nessuno. L’uomo, natura esso stesso, è anche lui una madre crudele. Le menti più sane e limpide stanno cercando di trovare la difficile risposta a come trovare un equilibrio tra le esigenze dell’uomo di affrancarsi dalla fame e dalle malattie, il diritto di vivere che hanno tutte le specie viventi che popolano la terra e il dovere morale di lasciare alle future generazioni un ambiente e delle risorse ancora utilizzabili. Ad imprimere un’accelerazione a queste riflessioni la decisione presa pressoché all’unanimità da Senato e Camera di modificare gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana a favore del rispetto degli animali e dell’ambiente. Il 9 Marzo 2022 questa variazione è stata ufficializzata in Gazzetta Ufficiale e i due articoli ora recitano testualmente:

Articolo 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali.”

Articolo 41: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”.

La tutela dell’ambiente e degli animali è entrata ufficialmente nella Costituzione coerentemente con quanto indicato nell’art. 13 del Trattato sul Funzionamento dell’UE che precisa che: «…l’Unione e gli Stati Membri devono, poiché gli animali sono esseri senzienti, porre attenzione totale alle necessità degli animali, sempre rispettando i provvedimenti amministrativi e legislativi degli Stati Membri relativi in particolare ai riti religiosi, tradizioni culturali ed eredità regionali.»

Questo storico evento va gestito con intelligenza e con prudenza, perché potrebbe essere frainteso e creare confusione o facili pretesti alle frange più estremiste dei movimenti animalisti e ambientalisti che, più che un miglioramento della qualità della vita degli animali e la tutela dell’ambiente, evocano l’adozione di un comportamento alimentare vegano e la chiusura degli allevamenti intensivi senza voler chiarire il vero significato di questa parola. L’essere vegani implica l’eliminazione totale di ogni alimento di origine animale dalla dieta, per cui più che la chiusura degli allevamenti intensivi auspicano l’estinzione di tutte le specie animali domesticate e selezionate dall’uomo per produrre cibo e che ormai allo stato naturale non saprebbero più vivere, al pari di buona parte delle razze dei cosiddetti animali d’affezione e da sport.

Le associazioni animaliste meno radicali e buona parte della popolazione umana vorrebbe invece un miglioramento della qualità della vita degli animali, ma solo di quelli d’allevamento perché ritengono che quelli allevati per sport o compagnia abbiano un tipo di vita coerente con il loro naturale comportamento e siano pertanto “felici”. Questa parte strutturalmente più sana e più pura dei sentimenti umani del post-antropocene è spesso portata fuori strada dal non conoscere la vera etologia sia degli animali domestici che di quelli selvatici, e più in generale la natura. Il mondo selvaggio di un bosco primigenio o di una prateria è il contesto tipico della lotta per la sopravvivenza, con un ambiente spesso ostile, e parassiti, predatori e malattie che sono una dura realtà con cui convivere. L’ambiente domesticato dall’uomo è piacevole, almeno apparentemente, per le specie che esso ha scelto come compagne di vita. Gli articoli 9 e 41 della Costituzione italiana non parlano di diritti degli animali e dell’ambiente, perché questo concetto di “animali portatori di diritti” è ancora complesso da digerire, anche se è la l’espressione meno equivocabile e meno assoggettabile ad una visione antropocentrica della vita. Utilizzare il termine “diritto” anche per gli animali d’affezione che popolano le nostre case o partecipano a sport come l’equitazione e la caccia metterebbe seriamente in discussione il rapporto che in genere l’uomo ha con queste specie e queste razze.

E’ pertanto necessaria una improrogabile definizione etologica delle specie con le quali interagiamo, siano esse domestiche o selvatiche. Questo indispensabile approfondimento aiuterà a comprendere e senza pregiudizi se sia moralmente rispettoso dei diritti degli animali il modo in cui stiamo gestendo tutta la moltitudine di animali domestici che vivono con noi e di quelli selvatici che comunque interferiscono con la stabilità dell’ecosistema creato dall’uomo. I ratti che vivono nelle città e quelli da laboratorio hanno gli stessi diritti? Il lupo e l’orso che diritti hanno e come è giusto che convivano con l’uomo? E’ giusto selezionare razze canine e feline deformi perché questo le fa assomigliare di più ad un essere umano? E’ giusto cacciare animali selvatici ormai a rischio d’estinzione solo per il gusto di farlo e non per fame? Gli animali d’allevamento anelano veramente a vivere all’esterno e pascolare? L’umanità dovrà porsi questi e molti altri interrogativi, al netto della consapevolezza dell’antropomorfizzazione, ossia della tendenza che ha l’uomo di trasporre a molte specie viventi comportamenti e sentimenti umani. Fin da tenera età assimiliamo modelli animali che con l’uomo hanno come differenza solo l’aspetto, e solo in parte. Gli animali antropomorfizzati di fatto non esistono ma la selezione genetica sta modificando in questo senso molte razze di cani, gatti e conigli per farli assomigliare sempre più all’uomo ed in particolare ai bambini. Questo diffusissimo atteggiamento sta falsando l’opinione che la gente non vegana e non radicalizzata ha del modo con il quale è giusto allevare gli animali destinati a produrre cibo per l’uomo.

Altra grande frustrazione la sta generando il fine vita degli animali domestici da cibo. In natura la morte di vecchiaia è rarissima. Prede e predatori che per anzianità o malattia perdono l’abilità di competere con i loro simili e procacciarsi il cibo diventano un’inevitabile preda per i predatori. Analogamente, gli animali d’allevamento, anche quelli destinati a produrre latte o uova, terminano la loro vita in un mattatoio, per cui essere vegetariani per non fare del male agli animali è una contraddizione ipocrita. Solo gli animali che condividono con l’uomo anche l’abitazione hanno la possibilità di morire di vecchiaia. La paura della morte, e le difficolta nello spiegarla, hanno condizionato moltissimo l’evoluzione della cultura umana, ma probabilmente è un sentimento che non appartiene agli altri animali dove è la specie e non l’individuo a catalizzare tutte le priorità. Per la specie la morte di individui anziani e malati è una grande opportunità per assicurarsi sopravvivenza ed espansione sulla terra, perché permette ai giovani in età riproduttiva di ridurre la competizione alimentare.

La consapevolezza di cosa veramente si auspicano le specie animali domesticate dall’uomo e quelle selvatiche, al netto dell’antropomorfizzazione, può permettere a chi ha veramente a cuore i diritti degli animali di battersi per assicurare loro una vita degna di essere vissuta, e di immaginare gli allevamenti del futuro e un nuovo rapporto con gli animali non destinati al cibo. Conosco personalmente poche, se non nessuna, associazione animalista che si batte realmente per migliorare la qualità della vita di tutti gli animali senza pregiudizi, mentre conosco molte persone che come scienziati, tecnici e gente comune che stanno dando un pratico apporto in tal senso.

Noi di Ruminantia, attraverso il think tank della Stalla Etica, stiamo dando un contributo tecnico e culturale in questo senso, con l’obiettivo di mettere in discussione tutti quei paradigmi zootecnici che, a torto o a ragione, hanno urtato la sensibilità etica della gente e la qualità della vita della vita delle bovine da latte e di fugare, con un dialogo sereno e pacato, tutti quei pregiudizi che si sono sedimentati nell’opinione pubblica sia sugli allevamenti intensivi che su quelli estensivi. Personalmente, in giovane età rimasi molto colpito dalla lettura del libro “Il rispetto della vita” di Albert Schweitzer, uomo di cultura poliedrica che ricevette nel 1952 il premio Nobel per la pace. Il rispetto per la vita in tutti i suoi aspetti è forse la forma mentis in grado di “normalizzare” il rapporto dell’uomo con la natura e avviarci verso i nuovi paradigmi dell’era post-antropocene.