1220 Avarga (Mongolia Centrale)
Nella steppa e alla confluenza dei fiumi Kherlen e Tsenker si trova Avarga, campo base invernale, capitale nomade e centro di raccolta e distribuzione di merci provenienti da tutto l’Impero Mongolo di Gengis Khan a capo del suo popolo di tartari che gli obbediscono fedelmente. Un popolo questo di uomini e donne che resistono con stoicismo alle fatiche, specie alla mancanza di viveri, e durante la cavalcata non si lamentano mai del caldo, del freddo o del vento, che mangiano carne di qualsiasi tipo, soprattutto dei cavalli e dei cani, e in caso di necessità anche quella umana, non hanno pane, ortaggi o legumi, ma bevono molto latte di cavalla dal quale traggono una bevanda inebriante. La carne spesso insieme alla verdura è cotta con l’aiuto di pietre preriscaldate nel fuoco. Durante i pasti non si servono di tovaglie o salviette e dopo il pasto si puliscono le mani o sull’erba o sugli stivali e l’ubriachezza è considerata una virtù, non un vizio. Di tutto questo, ma soprattutto del latte della loro bevanda inebriante, sotto un magnifico padiglione parliamo in un’intervista che ci concede il grande Gengis Khan che, dopo aver unificato le tribù mongole e turche ha creato un gigantesco impero.
Grande Gengis Khan, come avviene che il suo popolo vive a stretto contato con i cavali dai quali trae anche nutrimento?
Nelle sterminate pianure delle steppe dell’Asia centrale e che superando gli Urali sconfinano nell’Europa, da tempi immemorabili vivono popolazioni umane strettamente connesse ai cavalli. Se in tempi molto lontani per l’uomo il cavallo è un animale cacciato per mangiarne la carne, gli antichi popoli Botai se non per primi, almeno tra i primi, addomesticano i cavalli selvatici (Equus ferus) facendone un nuovo mezzo di trasporto e di guerra, dando origine a leggende come quelle dell’uomo-cavallo o Centauro, delle Amazzoni e delle Valchirie. Partendo dai cavalli selvatici (antenati dei cavalli di Przewalskie – N. d. I.) i Botai contribuiscono alla formazione dei moderni cavalli di oggi e sono tra i primi che hanno raccolto il latte di cavalla e facendola fermentare ottenendo una bevanda tipica delle steppe asiatiche e che è arrivata fino a noi, il kumis (bevanda alcolica che gli assaggiatori moderni paragonano a uno champagne mescolato a panna acida – N. d. I).
A quest’ultimo riguardo, come nasce il kumis?
È questa una lunga storia. La cavalla non è l’unico animale che l’uomo ha addomesticato e di cui ne ha imparato ad usare e trasformare il latte, basta ricordare la mucca, la bufala, la pecora, la capra, l’asina, la cammella, la renna, la femmina dello yak. Il latte di cavalla tra tutti gli animali domestici è quello che ha la maggior quantità di zucchero (lattosio, sei e più grammi per cento, contro i tre, quattro grammi dei ruminanti) una quantità che si avvicina a quella del latte di donna (sette grammi). Per questo il latte di cavalla quando fermenta dà origine ad acidi e tra questi soprattutto acido lattico, e ad alcole etilico divenendo una bevanda inebriante con un contenuto alcolico del due, quattro e anche più per cento, quindi con percentuali simili alle bevande che si ottengono ottenute dai cereali (birra – N. d. I.). Per migliaia di anni, i popoli delle steppe nella loro vita nomade mettono in sacchi di pelle il latte di cavalla che quando fermenta diviene la bevanda alcolica denominata (Questa fermentazione è prodotta da lieviti del genere Saccharomyces – N. d. I.). Come lei può costatare il kumis è una bevanda alcolica leggera che punge sulla lingua come vino asprigno e lascia in bocca il sapore del latte di mandorla. In ogni regione prende un nome diverso in base al popolo e alla cultura in cui è prodotta e tra queste kumiss, koumiss, kymys, kymyz, kumisz, kymyz o qymyz, kımız in turco, qımızin in tataro, qɯmɯ́z in kirghizo, qımıð in baškira, kımıs in lingua sacha e in Mongolia la bevanda è chiamata ajrag. Ora noi lavoriamo il latte di giumenta in un grande recipiente e zangolato con un bastone fino a quando comincia a bollire come vino nuovo e, quando è leggermente piccante, è pronto per essere bevuto e apprezziamo soprattutto una particolare varietà di kumiss nero chiamata caracosmos e prodotta con il latte di cavalle nere. La mungitura di questi animali richiede abilità e la presenza del puledro avvia il flusso del latte che è mantenuto al fianco della cavalla e al quale è lasciata una parte del latte. Il tutto avviene secondo quanto c’insegnano i nostri sciamani.
Grande Gengis Khan. Nel ringraziarla della accoglienza e dell’intervista, quale è la posizione degli sciamani nella produzione del kumis?
Nella nostra comunità gli sciamani sono il tramite con le entità soprannaturali degli spiriti del cielo e degli inferi, le anime dei defunti con le quali si identificano attraverso la possessione acquisendo facoltà taumaturgiche e divinatorie, grazie anche alla bevanda inebriante ottenuta del latte di cavalla. Anche per questo l’ubriachezza è considerata una virtù, non un vizio, ma parte integrante d’ogni cultura umana e fondamentali per il comportamento sociale dell’uomo. Per i nomadi che da secoli abitano le inospitali steppe dell’Asia centrale non è possibile ottenere una bevanda inebriante dalla fermentazione di parti di piante e per questo motivo il kumis è la soluzione perfetta ottenuta dal latte delle giumente che hanno sempre accompagnato le popolazioni dell’Asia centrale. Sono gli sciamani che mantengono le tradizioni di produzione e soprattutto di uso del kumis, una bevanda sacra e parte di riti di celebrazione delle divinità.
Giovanni Ballarini, dal 1953 al 2003 è stato professore dell’Università degli Studi di Parma, nella quale è Professore Emerito. Dottor Honoris Causa dell’Università d’Atene (1996), Medaglia d’oro ai Benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte del Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Italiana, é stato insignito dell’Orde du Mérite Agricole della Repubblica Francese. Premio Scanno – Università di Teramo per l’Alimentazione nel 2005, Premio Giovanni Rebora 2014, Premio Baldassarre Molossi Bancarella della Cucina 2014, Grand Prix de la Culture Gastronomique 2016 dell’Académie Internationale de la Gastrononie.
Da solo e in collaborazione con numerosi allievi, diversi dei quali ricoprono cattedre universitarie, ha svolto un’intensa ricerca scientifica in numerosi campi, raggiungendo importanti e originali risultati, documentati da oltre novecento pubblicazioni e diversi libri.
Da trenta anni la sua ricerca è indirizzata alla storia, antropologia e in particolare all’antropologia alimentare e anche con lo pseudonimo di John B. Dancer, ha pubblicato oltre quattrocento articoli e cinquanta libri, svolgendo un’intensa attività di divulgazione, collaborando con riviste italiane, quotidiani nazionali e partecipando a trasmissioni televisive. Socio di numerose Accademie Scientifiche è Presidente Onorario dell’Accademia Italiana della Cucina e già Vicepresidente della Académie Internationale de la Gastrononie.
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